Tradimento ed infedeltà: due volti del medesimo dolore Con questo...
Leggi di piùTra i bisogni fondamentali dell’uomo rientra quello di vivere con i propri simili. La disposizione a costruire e a mantenere relazioni affettive significative è insita nel patrimonio genetico della specie umana ed è presente sin dalla nascita. Da ciò ne consegue che la paura dell’abbandono è una delle ansie più frequenti che un individuo possa sperimentare nel corso della propria vita ed è connaturata nella natura umana.
Viene definito “abbandono” l’atto di lasciare definitivamente qualcosa o qualcuno, ma delle volte può guadagnarsi il sinonimo di rinuncia e trascuratezza. In psicologia l’abbandono è considerato un sentimento che causa disagio emotivo e che, in taluni casi, può sfociare in veri e propri disordini mentali o disturbi psichici con vissuti depressivi più o meno gravi. Ha la sua origine nell’infanzia o nella prima adolescenza e se non riconosciuta o correttamente elaborata può protrarsi fino all’età adulta, causando sofferenza e angoscia in chi la sperimenta.
Proprio perché il bambino è un essere umano che dipende in tutto e per tutto dagli adulti che si prendono cura di lui, può capitare che arrivi a sperimentare la paura di essere stato abbandonato se il genitore non è immediatamente presente o responsivo. Fino ad una certa età è alquanto normale provare questo stato d’animo, ma con il progredire del tempo e il susseguirsi delle esperienze, soltanto il bambino cresciuto in un ambiente più o meno stabile apprende l’arte di cavarsela da solo, per dare finalmente il via a quel processo che Margaret Mahler definiva di “separazione-individuazione”.
Questo particolare processo intrapsichico è generalmente caratterizzato da due percorsi di sviluppo intrecciati fra di loro, ma che non sempre procedono in modo congruo. Si parla di “individuazione” come di quel cammino che permette l’evoluzione dell’autonomia, caratterizzata per un incremento della stessa nell’ambito della percezione, nella memoria, nel pensiero e nell’esame di realtà; mentre si parla di “separazione” come di un cammino di differenziazione dall’altro (genitore o adulto di riferimento), allontanamento, impostazione di confini sani e svincolamento.
Nei casi in cui questo processo venga completato correttamente, l’individuo sarà libero di essere sé stesso, autonomo e separato persino dallo stesso individuo che lo ha generato. In altri casi può accadere, però, che il bambino sperimenti invece vissuti prolungati di abbandono dovuti a separazioni definitive degli adulti di riferimento, trascuratezza fisica ed emotiva o una scarsa sintonizzazione con il genitore nei riguardi dei suoi bisogni, iniziando così ad associare la figura più importante per lui all’instabilità.
Questa paura mai contenuta, gestita o rassicurata, a lungo andare finisce per ripercuotersi sulle relazioni future che quel bambino sperimenterà in età adulta, soprattutto all’interno della sfera sentimentale, portandolo in tal modo a sviluppare strategie compensatorie auto-sabotanti come ad esempio rassegnazione, evitamento e controllo.
Come abbiamo appena visto, un bambino molto amato avrà sviluppato radici affettive solide e ramificate, si sentirà grato per la sua dote affettiva e sarà in grado di amare a sua volta, senza traumi, fobie, paure o timori. Al contrario, un bambino ignorato o maltrattato non è riuscito ad interiorizzare amore e cure e, dunque, non sarà capace di riproporle in un legame affettivo di coppia. Lo scenario più plausibile è che da adulto egli diventi un partner sottomesso, maltrattante, algido ed evitante. Questo concetto è ciò che determina se quell’individuo svilupperà o meno la paura dell’abbandono, e viene chiamato imprinting amoroso.
L’adulto che da bambino non è stato amato o è stato amato in maniera disfunzionale sarà portato a sviluppare tutta una serie di strategie che, solo in apparenza, sono volte a migliorare il proprio benessere per far fronte alla paura di essere abbandonato, ma che in realtà vanno ad intensificare la paura stessa oltre che la credenza interiore di non essere in grado né di fronteggiare eventuali perdite che la vita inevitabilmente presenta, né di riuscire a cavarsela in ogni situazione di difficoltà in piena autonomia.
Anni addietro ho avuto in terapia da me Kevin, un giovane uomo i cui problemi relazionali e sentimentali avevano proprio a che fare con la paura dell’abbandono, tramutatasi poi in sindrome abbandonica (quando la paura dell’abbandono diventa patologica si parla di sindrome dell’abbandono). Kevin aveva il costante timore di essere lasciato solo, di venir dimenticato, di non aver più nessuno che si prendesse cura di lui e, sostanzialmente, di perdere “pezzi” della propria esistenza. Trasferirsi, lasciare il nido familiare per andare a vivere da solo, rincorrendo la medesima voglia di indipendenza dei suoi coetanei, non aveva fatto altro che peggiorare la sua paura dell’abbandono, aggravandola irrimediabilmente.
Per fronteggiare al meglio questa paura, aveva messo in atto strategie come evitamento, controllo e rassegnazione. Attraverso l’evitamento si era convinto che un legame portasse obbligatoriamente alla sofferenza, dunque, evitava a priori di legarsi sentimentalmente a qualcuno. In questo modo anche chi aveva a che fare con lui, sentendosi poco importante, era portato ad allontanarsi. Nel momento in cui era riuscito a trovare qualcuno per cui superare la fase dell’evitamento e si era effettivamente impegnato per portare avanti la sua relazione, subentrò la tecnica del controllo.
Nonostante avesse avviato una relazione funzionale e sana iniziò a viverla con un costante stato di allerta dovuto a fantasie catastrofiche che potevano riguardare gli argomenti più disparati: tradimenti, incidenti, morti improvvise e tutto ciò che, di fatti, era al di fuori del suo controllo. Il risultato fu un comportamento iper-vigilante, sospettoso e iper-controllante verso il suo partner, il quale, sentendosi rivestito di scarsa fiducia, decise di porre fine alla relazione con Kevin.
C’è anche da dire che quest’ultimo, durante questa sua relazione poi chiusa bruscamente, aveva messo in moto anche strategie di rassegnazione: anziché vivere nel presente godendosi ciò che accadeva intorno a lui, sperimentava una continua ed implacabile tristezza anticipatoria che lo privò della gioia e portò effettivamente il suo partner ad allontanarsi. Questi comportamenti, pur essendo di fatto delle strategie difensive, ebbero il merito di funzionare come vere e proprie profezie auto-avveranti, che condussero Kevin alla tanto temuta separazione andando ad amplificare ancora di più la sua paura.
Come già osservato precedentemente, quando il disturbo d’ansia conseguente ad esperienze e a vissuti infantili conflittuali con le figure di riferimento e di attaccamento non viene adeguatamente risolto o tantomeno affrontato, in età adulta avremo un individuo insicuro, con un’identità fragile e che prova molta difficoltà nelle relazioni affettive. Per le persone che soffrono di sindrome dell’abbandono spesso e volentieri le relazioni affettive non rappresentano un’occasione di scambio reciproco e di crescita, ma un luogo nel quale annullare la propria identità a favore dell’altro accondiscendendo la profonda e patologica paura di perderlo.
In altri casi può verificarsi che la persona con sindrome abbandonica, all’interno delle relazioni affettive che vive, si trasformi in un persecutore del partner mosso da una gelosia morbosa ed irrazionale. Ciononostante, la paura dell’abbandono può manifestarsi anche nell’impossibilità di mettere fine a relazioni dannose che siano esse d’amicizia, di amore o di lavoro pur di non restare soli. Da ciò si evince che, se la paura dell’abbandono è una realtà normale per ogni essere umano, essa può diventare “patologica” nel caso in cui la persona non ha correttamente metabolizzato ed interiorizzato durante i suoi primissimi anni di vita un legame sicuro con le figure di riferimento.
In quelle situazioni, le esperienze di separazione o di perdita vissute da adulto possono riportare alla luce profonde ferite infantili che solleticano l’angoscia di essere tradito, di essere rifiutato, di essere insignificante, o addirittura, trasparente. È importante specificare come la separazione venga vissuta non soltanto come perdita dell’altro, ma anche di sé quale persona degna di essere vista ed amata.
La sindrome dell’abbandono o l’angoscia da abbandono può avere forti ripercussioni sulla vita quotidiana, specie dal punto di vista della costruzione di rapporti sani. Inoltre, porta con sé una serie di problematiche fisiche e psichiche: stanchezza, disturbi del sonno o dell’alimentazione, disturbi digestivi, abbassamento delle difese immunitarie, disturbi della sfera neurovegetativa; ma anche senso di vuoto come se tutto fosse terminato, come se nulla avesse più un senso o una stabilità, correlata da una pervasiva sensazione di non farcela, di non avere più uno scopo o di non avere più “se stessi”.
Chi sperimenta l’abbandono sente di aver perso una parte di sé e dunque ha la sensazione che la sua esistenza sia, da quel momento in avanti, priva di senso. Non è rara la presenza di abulia, ossia di quell’incapacità di portare a termine le proprie azioni o di assumere decisioni. In chi ne soffre possono insorgere depressione, attacchi di panico, ma sono sintomi altrettanto comuni l’aggressività, la gelosia e le frequenti crisi di ansia.
Qualora anche tu sentissi il bisogno di affrontare insieme ad un professionista questa problematica o altre di varia natura non esitare a contattarmi o a raggiungermi in sede per un primo colloquio conoscitivo totalmente gratuito e senza impegno.
Dott. Cristiana Prada, Psicoterapeuta e Sessuologa
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